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Serie A, la battaglia per riaprire gli stadi che restano vuoti

Il presidente della Lega Serie A, Paolo Dal Pino, imputa la mancanza di competitività delle squadre italiane alle restrizioni decise dal Governo per gli stadi. Che però quasi mai hanno raggiunto la massima capienza consentita

Pubblicato:09-11-2021 14:54
Ultimo aggiornamento:09-11-2021 14:54

stadio bologna
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ROMA – “Poi i tifosi non si devono stupire se le nostre big sono costrette a vendere i giocatori perché mancano risorse per competere“. Le risorse, per Paolo Dal Pino, sono nascoste in un forziere nascosto allo stadio. Piccoli tesori: una curva, una tribuna. Il 25% della capienza totale che il Governo si ostina a negare ai tifosi per questioni sanitarie, vale evidentemente per il presidente della Lega Serie A la residua speranza di riportare il calcio italiano ai fasti d’un tempo. O almeno questo è il tranello emotivo: riempite quelle poltroncine e nessun Lukaku sarà venduto. Ma no, la politica dice ancora una volta no. E il calcio la prende malissimo.

Dal Pino va in radio (a ‘La politica nel pallone’) e fa scattare, come un tic, il confronto coi cinema: “Non è possibile vedere nei cinema al chiuso il 100% del pubblico e negli stadi avere solo il 75%“. Perché sia chiaro una volta per tutte: il calcio italiano “è un’industria che compete su scala internazionale” e lo rivendica. Il cinema no. Non è uno sfogo inedito. È un argomento che i vertici del pallone usano a pioggia dall’inizio della pandemia. Quando butta male di solito si finisce a parlare di Pil, di “indotto”, che sta un po’ su tutto come il prezzemolo: “Eh, ma l’indotto…”.


Nella loro percezione l'”industria” è un’etichetta lavabile: funziona per farsi belli in società – i presidenti, i capitani d’industria – ma tradotta in politica serve a pretendere aiuti. Non “ristori”, no (“quelli non li abbiamo mai chiesti”, ha precisato Dal Pino), “ma almeno la rateizzazione delle tasse sugli stipendi dei calciatori”. Eccolo il ponte sintattico da quinta elementare: ‘Perché i cinema sì e noi no?’. La polemica, per quanto strumentale, ha una sua direzione. Ma il nesso tra la crisi finanziaria dei club italiani (“non economica, finanziaria” puntualizza l’ad dell’Inter Beppe Marotta) e quel 25% di sediolini occupati dal distanziamento sanitario è imbarazzante. “E poi non si stupiscano i tifosi se…”.

I tifosi, nel frattempo, hanno di meglio di fare. Dal Pino racconta un mondo a immagine e somiglianza del derby di Milano, saturo di colori, col tutto esaurito imperativo categorico, le coreografie magniloquenti, e le millemilioni tv collegate da “tutto il mondo”. Ma il resto è invece una landa semispoglia, e molto annoiata. Fatta di vecchi stadi malconci abitati sempre meno. Se si vanno a guardare i dati aggregati dei paganti disponibili per questo inizio di stagione, si noterà che solo le due milanesi, la Roma e lo Spezia si sono avvicinate a una media pari al 50% della capienza massima fino al 10 ottobre, ovvero prima che scattasse l’ulteriore via libera al 75%.

E la soglia fatidica del sold-out “a metà” – tutto il 50% disponibile venduto – è stata raggiunta in pochissimi casi. Con distorsioni evidenti: il Napoli capolista, imbattuto, nel pieno dell’euforia da primato viaggia ben al di sotto della percentuale limite di posti occupati. Bari-Foggia, derby infrasettimanale di Serie C, ha registrato 20.431 spettatori; Juventus-Roma, big match della ottava giornata, di domenica sera, 20.239. In questo scarto è ritratta la vera cartolina dalla Serie A. Che a Dal Pino, evidentemente, non è stata ancora recapitata. “Noi siamo felici di vedere i politici allo stadio quando si danno scudetti o si premia la Nazionale che ha vinto gli Europei. Ma questa è una industria che può generare anche più Pil di oggi”. E invece gli tolgono il 25% di poltroncine che resterebbero comunque per lo più invendute.

I tifosi, quelli che con la pandemia hanno scoperto che esiste una vita oltre il calcio, non si stupiscono delle big che vendono campioni all’estero. È uno spauracchio friabile. L’estate del calciomercato della povertà ha tradotto nei fatti il collasso di un sistema nel quale Inter, Juventus, Milan e Roma producono un miliardo e 300 milioni di rosso in bilancio. Tre di queste erano così solidali all’industria che s’erano iscritte alla Superlega: serviva disperatamente liquidità. Fallito il putsch in stile sovietico, tutto è tornato alla deformata situazione iniziale.

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La Serie A si contrabbanda sul “mercato internazionale”, mentre la Premier League firma accordi di cessione dei diritti televisivi per 11 miliardi a triennio. Sei solo per quelli da esportazione, dieci volte quelli della Serie A. Quando qualcuno dice che paragonare il campionato italiano alla Premier è come soppesare il basket italiano col metro dell’Nba, Figc e Lega si offendono. Oppongono l’inoppugnabilità dell’alibi: la pandemia, il governo cattivo. “Noi siamo industria”. E poi volano in Arabia Saudita a trattare la cessione in loco della Supercoppa Italiana al prezzo di 3,5 milioni a squadra, vitto e alloggio compreso. Più che industria, una piccola e media impresa.

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