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FOTO-VIDEO | Ragazza manganellata a Bologna, la Procura vuole archiviare. Lei non ci sta: “Non sono inciampata”

Per i pm è difficile identificare con certezza l'autore del colpo, ma Martina, fin da subito, aveva detto di essere in grado di identificare l'agente che l'aveva colpita per averlo visto attraverso la visiera del casco

Pubblicato:28-06-2024 16:35
Ultimo aggiornamento:28-06-2024 18:54
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BOLOGNA – Ha preso una manganellata in testa durante una manifestazione che le ha provocato un trauma cranico. E ha deciso di denunciare l’episodio dichiarandosi disponibile a identificare l’agente che l’ha colpita. La Procura, però, chiede di archiviare il caso: la sua versione non sarebbe “sufficiente a individuare con certezza l’autore del fatto”, e in una prima ricostruzione sarebbe stata lei a “inciampare” provocandosi le lesioni. È la storia di Martina Solidoro, attivista di Labas, e di quanto successo lo scorso 17 ottobre. Quel giorno, in seguito allo sgombero dell’istituto Santa Giuliana a Bologna, occupato in nome del diritto alla casa, si verificarono scontri con le Forze dell’ordine.

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“Stavamo esercitando il diritto di dissentire rispetto a un’ingiustizia, non mi stancherò mai di ricordarlo, quella di aver tolto un tetto a 40 persone”, ricorda l’attivista. Durante quel presidio, “ci sono state cariche violente nei confronti di un gruppo di manifestanti che erano a volto scoperto e a mani nude. Un poliziotto mi ha causato un trauma cranico e ho passato una giornata in Pronto soccorso” da cui uscì con 17 giorni di prognosi, racconta Martina. “Ho deciso di denunciare quella violenza”, dice mostrando dal telefono una fotografia che la ritrae in un bagno di sangue e soccorsa dagli altri attivisti. Il volto di chi la colpì, assicura e ricorda bene ancora oggi, era pienamente riconoscibile. “Era a un metro da me, aveva il casco, ma la visiera è trasparente. Ho visto l’agente che mi ha colpito in faccia e ho detto che avrei potuto procedere per l’identificazione” nell’ambito delle indagini. Ma “non mi hanno chiesto nulla, non hanno provato ad ascoltarmi”. La Procura ha chiesto l’archiviazione, perchè la sua testimonianza non è sufficiente e dalle immagini acquisite, si legge, “non è stato possibile ricostruire l’esatta dinamica”.


Questa mattina l’attivista, insieme all’avvocata Francesca Cancellaro, fa capire che non è disposta a desistere. E’ stata depositata un’opposizione alla richiesta di archiviazione per i fatti del 17 ottobre e la legale confida che il giudice delle indagini preliminari “vagli qualità e quantità del materiale raccolto fino ad oggi. Ci auguriamo disponga nuove indagini, finora sono state carenti”. Il procedimento è contro ignoti, “ma riteniamo che sia invece possibile arrivare a un’identificazione, non solo con i documenti già agli atti, ma anche e soprattutto valorizzando un riconoscimento che potrebbe essere effettuato dalla stessa persona offesa, che non è stata ad oggi sentita, né convocata”. Questo secondo la legale è “grave”, non solo perchè ha dichiarato di poter riconoscere chi la colpì ma anche perchè “le persone che denunciano devono sentirsi valorizzate e importanti per le attività di indagine, altrimenti l’effetto che si potrebbe produrre è di scoraggiare chi, come Martina, ha invece avuto molto coraggio e si è esposta anche pubblicamente”. E poi, “è altrettanto evidente che più passa il tempo, più questo ricordo potrebbe rischiare di sbiadire”. A sostegno dell’attivista è intervenuto anche Detjon Begaj, capogruppo di Coalizione civica in Consiglio comunale e tra i fondatori di Labàs. “Siamo solidali con la denuncia di Martina. Una democrazia che non persegue in trasparenza gli abusi di potere non può essere una piena democrazia”.

NUMERI SU CASCHI FORZE DELL’ORDINE, LABÀS LANCIA CAMPAGNA

Una campagna per chiedere l’identificazione degli agenti in servizio e per la libertà di manifestazione. È quella che viene lanciata oggi dal Labàs, riprendendo la vicenda di Martina Solidoro. Dal suo caso parte infatti la campagna “Identifichiamoli-libere di manifestare”, aperta a tutte le realtà che si sono occupate del tema.
“Abbiamo iniziato una raccolta di attestati di solidarietà attraverso la mail identifichiamoli@gmail.com”, spiega Cristopher Ceresi dei Municipi sociali- nelle prossime settimane seguiremo con attenzione lo sviluppo del processo di Martina e vogliamo fare insieme un percorso che finalmente porti al numero identificativo sui caschi della polizia e che esprima la libertà di dissentire in questo Paese”. La sua vicenda infatti è “anche quella di altri manifestanti, colpiti invece dai divieti di dimora in città, io sono uno di questi. Ci siamo opposti al fatto che 40 persone venissero buttate per strada, così come me, altri cinque sono stati mandati via da Bologna, dove abbiamo la nostra vita, proprio per impedirci di esprimere la nostra libertà di dissentire e far politica”. La campagna dovrà, aggiunge la stessa Martina, “dare voce anche a chi già la porta avanti da tanti anni, fare rete e metterci insieme, spingere su questo caso che può essere un modo per far riemergere questo tema che è l’abc della democrazia“.

La vicenda dell’attivista spalanca dunque il problema della “difficoltà nell’individuazione derivante dalla mancata numerazione dei caschi- aggiunge la legale Cancellaro- è una questione da oltre vent’anni all’attenzione delle cronache, ma siamo sempre lontani dal trovare una soluzione“.
Per questo “il fatto che possano essere in prima battuta riconosciute le persone che hanno agito alla forza, come in questo caso, è il presupposto ineludibile per poter poi valutare un’eventuale responsabilità penale“. Senza, “evidentemente è impossibile qualunque altra forma di accertamento, che valuti la necessità di quell’intervento e la sua proporzione”. Questo “vale evidentemente per il caso di Martina, ma vale anche per tutti gli altri casi”, conclude l’avvocata.

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