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FOTO | VIDEO | Palestina, reportage dal villaggio nel deserto all’ombra dei coloni: “Qui esistere è resistere”

I coloni estirpano e loro ripiantano, gli altri demoliscono e loro ricostruiscono: nel villaggio di pastori di At-Tuwani, a sud di Hebron in Palestina, va in scena la resistenza non violenta dei palestinesi, alle prese quotidianamente con aggressioni da parte dei coloni israeliani: "Siamo qui da sempre e non abbiamo alcun diritto"

Pubblicato:20-06-2024 15:24
Ultimo aggiornamento:20-06-2024 17:25

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BOLOGNA – Qui gli altri avanzano e loro non arretrano, i coloni estirpano e loro ripiantano, se demoliscono loro ricostruiscono: “It’s the fight for a land, a story of resistance, an amazing story of nonviolence”. Una storia ‘quotidiana’ da anni che arriva da At-Tuwani, villaggio di pastori a sud di Hebron. Qui vive Sami con la sua famiglia. E qui, riassume tutto in una frase, “esistere è resistere”. In mezzo al deserto, sulle colline dove ancora in tanti vivono in case scavate nella roccia per combattere il caldo, abitano 3-400 persone; c’è una scuola per 200 studenti, un piccolo negozio, una pompa di benzina, una moschea. C’è anche l’acqua: a differenza di altri villaggi che punteggiano il panorama, le case di At-Tuwani hanno l’allacciamento ad una condotta costruita per le abitazioni dei coloni israeliani.

“QUI È IN ATTO UNA ‘FIGHT FOR THE LAND'”

At-Tuwani esiste da ben prima delle colonie, che sono illegali, ma hanno avuto subito acqua corrente ed elettricità. Loro subito, At-Tuwani dopo sette anni”. Prima si recuperava l’acqua piovana dell’inverno e si usavano i pozzi. Oggi i pozzi restano, ma possono essere demoliti. Senza o con poca acqua è più dura stare nel deserto. Ma questa è solo una delle tante situazioni con cui Sami e la sua famiglia si trovano a ‘convivere’ ogni giorno: perché qui è in atto “a fight for the land”, una lotta per la terra che ha reso At-Tuwani “il pilastro della resistenza nonviolenta, un punto di riferimento per i successi che ha ottenuto”. A reagire così all’avanzata mangiatutto dei coloni, a ripiantare quando i frutteti vengono sradicati, a tirar su muri di pietra per impedire che i pascoli vengano occupati ed ‘espropriati’ piantando bandiere con la stella di David, a ricostruire le case demolite perché dichiarate illegali… a restare ha cominciato la nonna di Sami, Fatima, seguita dal figlio Hafez, e ora da Sami.

“È un modo di resistere che riduce al massimo possibile i danni e amplifica i successi rispetto ai risultati che ottiene una resistenza violenta”, spiega Sami incontrando in un hotel a Betlemme i pellegrini giunti dall’Italia e guidati dal Cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Sami è il primo di otto fratelli che fanno questa vita con e come lui, ma non è solo. Al suo fianco ci sono i volontari dell’Operazione Colomba dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; assieme ad altri attivisti israeliani e internazionali, ad At-Tuwani accompagnano i pastori al pascolo per documentare le aggressioni dai coloni: fotocamera a portata di mano raccolgono prove quando e come possibile. C’era anche un ‘servizio’ di “School patrol”. Gli studenti del villaggio di At-Tuba andavano a scuola ad At-Tuwani, ma per farlo devono percorrere una strada che passa a fianco della colonia. A seguito di un attacco particolarmente violento, la commissione sui diritti dell’infanzia della Knesset ha disposto un accompagnamento con i soldati isrealiani che però, raccontano i volontari, talvolta non si presentano, talvolta lasciano gli studenti a metà percorso… E da soli sono presi di mira. I volontari fanno la strada con loro. Ma percorrere quei 15 minuti di strerrata è vista come una provocazione ed è diventato troppo pericoloso anche per gli attivisti. Quindi stop, e comunque dal 7 ottobre i bambini non vanno più a scuola. Gli attacchi dei coloni (spesso estremisti nazionalreligiosi), raccontano Sami e i volontari, “sono pressoché quotidiani: possono riguardare l’accesso all’acqua, alle strade, i bambini e le donne, gli alberi, i furti di bestiame”; senza dimenticare segnalazioni che innescano arresti dei militari (“E un militare davanti ad un giudice, anche senza prove, sarà creduto più di un palestinese, che ha comunque sempre torto”, ricorda Sami).


“NOI SIAMO QUI DA SEMPRE MA NON ABBIAMO ALCUN DIRITTO”

Più in alto rispetto ai villaggi come At-Tuwani vengono edificati gli insediamenti dei coloni (protetti da muri e filo spinato): più in alto “per spaventare, così tutti si spostano e vanno nelle grandi città dove sono più controllabili. Spingere i palestinesi fuori dalla Palestina, è pulizia etnica e va avanti da 40 anni”. Ecco perché “la nostra presenza nei villaggi è già di per sé resistenza, qui esistere è resistere e i volontari sono fondamentali come deterrente importantissimo contro le violenze dei coloni”, spiega Sami. Restare per chiedere la riconsegna delle terre su cui sono sorte le colonie. Sami, calcando ogni volta che dice la parola ‘colonie’ sul termine ‘illegali’, parla sotto un grande albero che sovrasta la sua abitazione da una posizione che domina il villaggio e alle spalle fa intravedere le case (‘illegali’ secondo il diritto internazionale, non per Israele) e l’avamposto dei coloni (non in regola ad entrambi i livelli). È terreno suo, ma pochi giorni fa sulla cima dell’albero è stata messa una bandiera israeliana. Toglierla può portare all’arresto. “È una vita dura, soggetta a continui soprusi”. Una lotta per non farsi portar via l’unica cosa che hanno, la terra. La famiglia di Sami ha visto sparire 200 alberi, un vigneto, l’orto e comparire una piantagione di ciliegie. “Se ripianti è una provocazione” con le conseguenze facilmente immaginabili. “Siamo gente semplice, qui ogni casa ha 25-40 pecore o capre, siamo qui da sempre, legati alla terra. La zona di Masafer Yatta di cui fa parte At-Tuwani ha 240 grotte, ‘dovrebbe essere dichiarata patrimonio ambientale, storico e culturale e invece è ufficialmente zona per addestramento militare di Israele. Siamo qui da sempre e non abbiamo alcun diritto”.

CAMIONETTE SEMPRE PRONTE A ENTRARE IN AZIONE

Dopo l’incontro a Betlemme alcuni pellegrini hanno fatto visita ai volontari dell’Operazione Colomba e a Sami ricambiando la sua visita a Bologna di tempo fa. Da queste parti, dopo il 7 ottobre era pericoloso anche solo allontanarsi di casa di una decina di metri. Dopo il 7 ottobre sul campo vicino alla casa di Sami, il campo di sua proprietà, è spuntata una torretta militare. E basta fare quattro passi sul pascolo con affaccio sulla colonia che un blindato dell’esercito israeliano ferma la sua ronda davanti all’ingresso di casa di Sami, e resta lì: di traverso sulla strada, non passa più nessuno. Il mezzo, fermo a motore acceso, cede il passo solo alle auto dei coloni. I video documentano e raccontano. Neanche il sindaco di At-Tuwani può proseguire: inutile le richieste di spostare la camionetta. Qualche mamma si affaccia a dare una occhiata mentre stende dal tetto di casa, qualche bimbo fa una linguaccia ai soldati e scappa via; nel cortile di casa di Sami, sotto il sole di mezzogiorno a quasi 40 gradi, si tiene d’occhio il blindato: nessuno si muove, nessuno fa una mossa; ‘ci vuole una pazienza… Un grande esercizio di pazienza’, raccontano i volontari di Operazione Colomba. Parola d’ordine, esibire distacco e calma, ma la tensione aleggia.

I VOLONTARI AL FIANCO DEI PALESTINESI “CHE TI APRONO IL CUORE”

Arriva un’auto: sembra giunta lì apposta per vedere se riesce a far spostare i militari: suona il clacson più volte, niente; un bimbo sgambetta vicino al mezzo quasi a dire ‘io passo…’. Ma sotto sotto si spera ripartano presto: possono passare ore in questo stallo che logora i nervi sotto il sole. Gli abitanti di At-Tuwani scattano foto al mezzo militare, da dentro il blindato i militari fanno lo stesso. ‘Ci vuole una pazienza…’, al caldo del deserto e anche alla fatica del pensiero che qualcosa di brutto possa succedere da un momento all’altro, specie se non ci fossero i volontari. ‘Restare calmi, conversare’. E aspettare.
‘Se smettessimo di rimanere e lottare, se andassimo via– dice Sami- si prenderebbero altri spazi’ che difficilmente saranno restituiti. ‘We are alive victims’. Sulla stessa scuola del paese pende un ordine di demolizione. “At-Tuwani riceve molta attenzione e questo crea una grande pressione”. Qui i volontari hanno una regola semplice: “Facciamo quello che fanno i palestinesi: restiamo con loro dove sono, se scappano scappiamo”, ed è successo. “Con loro si crea un legame che ti porta a volerli aiutare, queste persone ti aprono il cuore in una maniera assurda”, racconta uno dei giovani dell’Operazione Colomba. “Sono parte della nostra famiglia”, rimarca dal canto suo Sami. Ma non c’è solo questo: “La solidarietà e l’attenzione che ci sono oggi sono per noi un grande segno di speranza perché c’è la possibilità di un vero progresso nella creazione di uno Stato palestinese, tornare nel silenzio mediatico significherebbe spegnere la speranza, se questa minimamente svanisce sarà più difficile vedere tornare la possibilità di far uscire dai coloni da ciò che non è loro”.
In hotel a Betlemme il racconto di Sami e dei volontari (ventenni) lo ascolta anche Alberto Zucchero, uno dei pellegrini giunti con Zuppi in Terra santa da Bologna, esponente della Comunità Papa Giovanni XXIII e del Portico della pace a Bologna. Ascolta e annota: questa storia prova che “là dove c’è una ingiustizia i giovani si attivano, rispondono, arrivano. Ci chiediamo spesso ‘dove sono i giovani’? Queste loro testimonianze trasmettono un’idea molto forte di presa di posizione e testimoniano la forza di prendere posizione in contesto dove, ascoltando tutti, non si resta equidistanti dalle ingiustizie”.

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