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Di Bartolomei e un colpo che non scalfì l’amore: l’addio 30 anni fa

Il 30 maggio, stessa data in cui dieci anni prima la sua Roma era stata battuta dal Liverpool

Pubblicato:30-05-2024 10:46
Ultimo aggiornamento:30-05-2024 10:46

di bartolomei
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ROMA – Possono due eventi dolorosi dare l’idea di un amore che un uomo, ancor prima che un calciatore, prova per una squadra, per un ambiente, per dei tifosi e per il pallone? Sì. Soprattutto se quell’uomo si chiama Agostino Di Bartolomei. Un uomo apparentemente introverso, serio, espressione cupa, ma in realtà “caciarone, dolce e ironico” rispetto a un personaggio che gli avevano cucito addosso “quelli che non ti conoscevano”, ricorda il figlio Luca nell’introduzione de ‘L’Ultima partita’, un libro di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno. E anche innamorato, Di Bartolomei, ancor prima del pallone della sua Roma, quella che mai avrebbe lasciato, neanche dopo l’addio al calcio, ma che con dolore scelse di non tenere al suo fianco. Un dolore forte già quello, che il riservato Agostino non nascose in campo quando a Milano, sponda rossonera, che raggiunse insieme al maestro Nils Liedholm nel 1984, esultò con rabbia al gol segnato contro la sua Roma nella partita vinta 2-1. E poi al ritorno di quella stagione, quando il pubblico non gli perdonò quell’esultanza, mentre in campo sfiorò la rissa prima con l’amico di sempre Bruno Conti, dopo un duro contatto, e poi con Ciccio Graziani che era intervenuto per difenderlo. Pochi mesi prima Di Bartolomei era stato tra gli undici scesi in campo dal 1′ nella storica finale di Coppa Campioni, a cui prima si accedeva solo da vincitori del proprio campionato (appunto da ‘Campioni’), che la Roma giocò nel suo stadio Olimpico di fronte al Liverpool di Rush, Souness e Grobbelaar.

Una partita proibitiva per i giallorossi, contro una squadra capace di vincere quel trofeo per tre volte su altrettante finali giocate. Dopo l’1-1 portato avanti fino ai rigori, Di Bartolomei si presentò per primo dal dischetto. Senza paura, senza batter ciglio, c’era il destino della sua Roma in palio, prendendo quel pallone diventato un macigno, calciato insieme ad una città intera alle spalle dell’eccentrico portiere avversario. Ma non servì, perché con Righetti segnò gli unici due rigori per la Roma in quella maledetta sera del 30 maggio 1984. E la Coppa finì agli altri. Con la Roma ‘Diba’ o ‘Ago’ giocò la sua ultima vera partita in giallorosso, il resto fu un trascinarsi verso la fine di un rapporto che invece doveva essere eterno. Nils Liedholm lo definì un “brasiliano fatto in casa”, grazie al tiro potentissimo di cui era dotato, oltre a tocco di palla ed intelligenza calcistica fuori dal comune. ‘Il Barone’ svedese lo reinventò libero, ruolo sparito come quel calcio romantico e pieno di sentimenti, sfruttandone tocco, lancio e intelligenza calcistica con cui riuscì a sopperire alla scarsa velocità nelle gambe. Nella Roma che negli Anni 80 con la Juventus fu protagonista di scontri epici, Di Bartolomei si dimostrò e confermò un leader. Silenzioso, è vero, ma leader. “È stato il nostro capitano, il nostro leader- ama ripetere Bruno Conti, lo ha fatto anche in questi ultimi giorni, lo fa da sempre, non smetterà mai di ripeterlo- Da lui ho avuto tanti consigli. È stato un grande uomo”.

Dopo la dolorosa separazione dalla Roma, giocò per altri sei anni, dividendoli pari pari tra tre squadre: oltre a quella del Milan vestì le maglie di Cesena e soprattutto Salernitana che guidò ad una storica promozione in serie B. Dopo l’addio al calcio giocato, era il 1990, si trasferì a Castellabate, comune d’origine della moglie Marisa, dove aprì una scuola calcio che portava il suo nome, con l’obiettivo di insegnare ai più piccoli che esisteva anche un calcio pulito, fatto di valori. Ma in quegli anni il dolore in Agostino Di Bartolomei si fece evidentemente sempre più forte. Lo si può solo ipotizzare perché si teneva tutto dentro, non era certo tipo da esternare. Per cui solo dopo quella mattina del 30 maggio 1994, esattamente 10 anni dopo Roma-Liverpool e la fine della sua storia con la Roma, quando disse addio al mondo sparandosi al cuore un colpo di pistola Smith & Wesson 38 Special, si capirono malessere, dolore e dramma di un uomo a cui l’amico Bruno (Conti, ndr) consigliava di avere pazienza, ma che soffriva nel vedere i suoi progetti che “si stanno sgretolando”. Un uomo che si sentiva “chiuso in un buco” e che pativa un dolore iniziato 10 anni prima. E quel pallone, “il mio adorato pallone” che sentiva sempre più lontano. Il suo amato pallone, simbolo di un calcio che stava già cambiando e in cui per lui non si trovò spazio. E poi la Roma e i suoi tifosi che in quella notte contro il Liverpool non volle deludere.
Ma oggi, dovunque si trovi, sentirà ancora una volta quell’amore incondizionato, con tutto il rispetto per le altre tifoserie che lo hanno potuto ammirare ed amare, del pubblico giallorosso nei suoi confronti che nessun colpo di pistola potrà mai far finire.


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