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No all’intolleranza, ecco gli occhiali con telecamera per documentare gli sputi ai cristiani

"Se davanti alle cose più piccole chiudi gli occhi, domani si dovrà affrontare un mostro più grande": a Gerusalemme Ysca Harani combatte gli atti di intolleranza verso i cristiani e sogna israeliani e palestinesi "nella stessa casa"

Pubblicato:17-06-2024 10:29
Ultimo aggiornamento:17-06-2024 10:29

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GERUSALEMME – Ysca Harani indossa gli occhiali non solo per vederci bene: i suoi sono dotati di una telecamera per riprendere gli atti di intolleranza verso i cristiani di Gerusalemme. Ad esempio, gli sputi (“o peggio”). Lei stessa, pochi giorni fa, li ha subiti. Con gli attivisti volontari del centro che ha creato nel cuore di Gerusalemme (una linea dedicata per raccogliere segnalazioni di atti di intolleranza) aveva allestito un banchetto lungo una delle strade più frequentate per andare al Muro del pianto. Una zona armena.

Ci siamo messi lì per spiegare con testi biblici scritti in ebraico ed armeno perché è sbagliato sputare sugli armeni. Mentre parlavo con alcuni di loro, hanno sputato a me: i miei occhiali hanno ripreso tutto e ho fatto denuncia alla Polizia”. Poi ha anche trovato un passante che ha accettato di leggere una delle tre lettere di rabbini che spiegano perché sputare è una blasfemia. Lui allora non le ha sputato e lei non lo ha denunciato: ha trovato qualcuno disposto a guardare le cose anche da una prospettiva diversa. E non è poco. Lo racconta ai pellegrini giunti da Bologna e da altre città d’Italia al seguito del Cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei.

Ysca è ebrea praticante, storica delle religioni e impegnata nel dialogo con il cristianesimo che insegna a israeliani ed ebrei (“Perché la conoscenza reciproca è importante”); forma le guide per i turisti; e documenta le “cattiverie profonde contro i cristiani”. Come le urla che una signora lancia contro un gruppo di ‘suore’ ucraine: le avvista nelle loro uniformi bianche con un cappello con la croce rossa sulla testa e grida loro di andarsene dal mercato ebraico di frutta e verdura; un gruppo di volontari le accompagna in incognito. “E’ importante esserci, la prima cosa è essere lì raccogliere immagini“.


Certo, continua Ysca, “ci sono tanti problemi, anche più grandi, c’è Gaza, ma se nessuno interviene questa diventa la normalità. Questo è un esempio, uno dei tanti della settimana scorsa”. Del resto il clima di “radicalizzazione è cresciuto di 10 volte” negli ultimi tempi: si vandalizzano i cartelli stradali che indirizzano alle chiese. “C’è più accanimento”: se non per Hamas, per altre confessioni. “Ma ci sono anche persone che combattono perché prevalga l’inclusività, io starò qui fino all’ultimo respiro. In questa Sodoma ci sono almeno 10 ‘giusti”, dice citando il passo biblico in cui ci si appella a Dio perché non distrugga la città purchè sia abitata da almeno pochi ‘giusti’. Con la tensione crescente “molte comunità cristiane sono più esitanti, più timide. Ripeto: si dice che succedono cose più gravi, ma se davanti alle cose più piccole chiudi gli occhi, domani si dovrà affrontare un mostro più grande. I piccoli gesti sono paradigmatici dei più grandi, e questo è quello che è successo il 7 ottobre”. Un “giorno di pura crudeltà, sto ancora cercando di metabolizzare lo choc, dopo non sono uscita ad alzarmi per due settimane”. Sua nipote è stata gravemente ferita: è salva perché protetta dai corpi di due soldati caduti su di lei.

Come si sta in questo ‘dopo’? “Smettendo di dire siate ‘side 1’ o ‘side 2’. Non sono una posizione, ho un nome”, eppure sono tanti contatti che si sono interrotti dopo quel giorno solo per il meccanismo delle appartenenze. Che è fortissimo, racconta Sarah Parenzo, intellettuale, pubblicista e ricercatrice. I giorni del pellegrinaggio seguono la gioia per la recente liberazione di quattro ostaggi (“La gente piangeva per la gioia in strada, in Sinagoga, in spiaggia”), che si accompagna al rilancio della narrazione ‘militare’, dell’eroe, “anche se l’ebraismo nasce come religione di vita”. Le letture qui si sovrappongono, spiega: “Ogni empatia verso i civili di Gaza viene vista come tradimento e si rischia di essere perseguitati”. Come capitato ad un paio di docenti universitarie, casi e nomi sono ormai fatti di cronaca (la professoressa palestinese protagonista di una delle due vicende è già anche stata reintegrata), ma Parenzo cita il mondo degli Atenei perché mentre in giro per il mondo gli studenti manifestano pro Palestina, in Israele lo fanno contro i docenti accusati di simpatizzare; i nomi di alcuni prof e le loro frasi vissute come più che sgradite sono comparsi su cartelloni lungo le autostrade fuori Tel Aviv e Haifa. Ma qui, continua Parenzo, “si percepisce poco cosa succede a Gaza”, e se passa qualcosa la ‘colpa’ è di Hamas o dell’antisemitismo che si propaga nel mondo. “In un popolo che da sempre ha la percezione di sentirsi vittima oggi ogni israeliano si sente che vive e che soffre. C’è l’idea di essere sempre minacciati”. Questo ‘approccio’ ha pesato nella “capacità di leggere il contesto” del 7 ottobre. Parenzo vede risvolti anche sul piano della salute mentale nel paese (ci sono stati suicidi tra i giovani sopravvissuti al rave, i soldati tornano feriti). Ma soprattutto prova a cercare modi che gettino ponti al posto dei muri. “Valorizzare gli ebrei provenienti dai paesi arabi. A prescindere dalla soluzione politico-istituzionale definitiva che è lontanissima, e se vogliamo uscire dall’uso della forza, che non ha funzionato, gli ebrei arabi e lo studio della lingua araba sono elementi importanti e i cristiani possono fare da ponte”. Poi sarebbe bello passare dalla narrazione dall’essere “i capi di casa a essere i figli di casa, tutti insieme nella stessa casa, israeliani e palestinesi. La Cabala dice che la creazione è avvenuta per contrazione di Dio che le ha fatto spazio. Se lo ha fatto lui dovremmo farlo anche noi”.

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