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Gerusalemme, fucili e indifferenza “ma qui o si fa festa o si fa la guerra”

Il viaggio dei fedeli arrivati da Bologna e da altre città italiane guidati dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo della città emiliana e presidente della Cei

Pubblicato:14-06-2024 17:06
Ultimo aggiornamento:14-06-2024 17:06

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GERUSALEMME – Mentre percorre in discesa una delle strette stradine della città vecchia di Gerusalemme verso il Muro del pianto, tra due ali di saracinesche colorate e tutte abbassate, il religioso bolognese, ‘veterano’ dei pellegrinaggi in Terra Santa, osserva: “Quello che fa impressione è l’indifferenza. Se non lo sapessimo, non lo capiremmo” dai comportamenti delle persone, “che a poca distanza di qui c’è la guerra”. E’ la sera della festa della Pentecoste ebraica, fa caldo e anche le stradine che di solito sono percorse da arabi ora vedono un su e giù di tanti ebrei osservanti in completo nero, treccine e cappello. Fossero giorni di tensione, non farebbero questo percorso per raggiungere il muro, seguirebbero altre vie, più sicure, al riparo dal rischio di agguati. Ad ogni buon conto, in due-tre camminano con a tracolla lunghi fucili automatici. Si può fare. E ad un occhio estraneo la cosa balza all’occhio.

“TRA LE DUNE UNA RAGAZZA CI HA CHIESTO PANNOLINI, NON AVEVAMO NEANCHE QUELLI”

Tutto normale, però. Non è normale però vedere i negozi chiusi (la sera o la mattina) o vicino al Getsemani lunghe file di autobus parcheggiati: non hanno scaricato turisti, sono fermi perché non ne hanno da trasportare; sostano lì perché parcheggiare altrove costerebbe trenta euro al giorno, troppi per chi non ha lavoro da mesi. L’assenza di turisti è un ‘metro’ immediato per misurare l’impatto qui della guerra. “Questa è una terra dove o si fa festa o si fa la guerra”, ricorda un arabo cristiano. Ed in effetti l’eco della guerra ci mette poco a risuonare. Incontrando i pellegrini arrivati da Bologna e da altre città italiane guidati dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, Andrea De Domenico, capo dell’Ufficio Ocha per il coordinamento degli affari umanitari dell’Onu per i territori palestinesi, racconta di scene dure. “Cosa ci chiedono i palestinesi? Di far smettere di bombardare, ci rispondono, ma nessuno ascolta”. Si può provare a dare degli aiuti. Facile a dirsi. De Domenico racconta di aver incontrato una ragazza tra le dune che si allontanava da un villaggio in fiamme. Suo marito ucciso, era appena rimasta senza soldi ma con quattro figli. “Sapete cosa mi ha chiesto? Se avevo dei pannolini, e noi non avevamo nemmeno quelli”.

Un ragazzo pakistano di una Ong, uno che viene “da un posto sempre in guerra”, non credeva ai suoi occhi quando ha aperto un sacco per il trasporto dei cadaveri trovando all’interno due corpi carbonizzati uno abbracciato all’altro; un adulto e un bambino. Per separarli avrebbero dovuto rompere le ossa, non l’hanno fatto. “Mi ha detto: ‘cose così non le avevo mai viste'”. Ma la violenza è sempre in ‘agguato’: a 500 metri dall’hotel che ospita i pellegrini italiani c’è stata una sparatoria contro un commerciante arabo.


AL SANTO SEPOLCRO: “IL CENTRO DI TUTTO”

Cresciuta è poi la violenza in Cisgiordania. E tutto questo ‘precipita’ sul secondo giorno del pellegrinaggio che inizia con una messa di Zuppi al Santo Sepolcro, il “centro di tutto, dove la morte di Gesù condensa la sofferenza di tanti uomini”. Qui, nel luogo che è descritto come la chiesa delle divisioni (cristiani, cattolici e copti), ma che va vista come la chiesa delle unità che si saldano, anche fisicamente, nonostante le loro differenze (la fede unisce, non la cultura o le razze), Zuppi dice: “Vogliamo seguire i passi di Gesù. Questo ci chiede di non restare nella stolta sicurezza dei parenti di Nazareth, di non giudicare a partire dalle reti e dalle barche, di liberarci dalla disillusione pratica di avere già provato inutilmente tante volte”. E il pellegrinaggio fatto di testimonianze serve a visitare i luoghi attraverso le persone. “Solo così capiamo la scelta della pace”.

Alla Basilica del Santo Sepolcro c’è il Calvario e “restare sotto la croce”, dice Zuppi, è un modo oggi per cercare la pace. “I discepoli non seppero vegliare davanti a un dolore grande. Scappano anche pensando a scaricarsi le responsabilità, a attribuirle, a discutere su di chi è la colpa, a coltivare l’odio, a accarezzare la spada…Non sanno mettere da parte il proprio ego per scegliere la vita”.

Stare sotto la croce, invece, è restare, “in silenzio, ascoltando, pregando”, la pace viene “affrontando il male non evitandolo, non restandosene in pace, ma vivendo il dolore come il proprio. Solo se due dolori diventano un amore unico, solo se le lacrime sono tutte uguali troviamo la via della pace”; se “non vediamo la croce, le croci, le guerre, i volti, le storie, le torture, le armi, non capiremo mai per davvero, restiamo innamorati delle nostre idee”.

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