(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 12 mag. - Oggi registriamo una sovraesposizione alla morte. E' stato calcolato da Eurispes, nel 2003, in uno studio effettuato in collaborazione con Telefono Azzurro, che entro la fine della scuola dell'obbligo un ragazzo assiste in televisione a circa 18.000 omicidi. Così la morte, presentata come spettacolo nei telegiornali e nei film, si sposta dall'ambito reale a quello virtuale. D'altra parte, nelle nostre città è difficile incontrare, se non casualmente, la morte reale, perché il contatto con il morire nella vita reale viene accuratamente evitato. Oltre l'80% dei nostri concittadini muore in ospedale. L'ospedale è pensato anche per questo.
La psicoanalisi, con Freud, coglie lucidamente la non rappresentabilità, per ciascuno, della propria morte; motivo per cui finiamo per assumere la stessa posizione dell'uomo preistorico, che si comporta come se fosse immortale, oppure vive la morte come annientamento. Scrive Freud: 'La morte costituisce la fine necessaria di ogni forma di vita [à] ognuno di noi ha questo debito verso la natura e deve essere preparato a saldarlo, e [à] dunque la morte è un fatto naturale, incontestabile, inevitabile. In realtà però eravamo abituati a comportarci in tutt'altro modo. [à] Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori. Perciò non c'è nessuno che creda alla propria morte, o, ciò che equivale, [à] nel suo inconscio ognuno è convinto della propria immortalità. Ciò che chiamiamo inconscio [à] non conosce la propria morte. La credenza nella propria morte non corrisponde dunque a nulla di pulsionale. [à] Forse questo è pure il segreto dell'eroismo'.
La psicoanalisi ci ricorda anche che l'angoscia generalizzata, innominabile, immotivata, inconfessabile che si accompagna al pensare la morte, diventa più gestibile quando si trasforma in preoccupazioni concrete, motivate. Così scivoliamo nell'ansia per una determinata malattia, nella ricerca della cura e del professionista migliore, nella ricerca del capro espiatorio. Se la morte ha avuto la meglio, allora il medico ha sbagliato, perché con tutte le nuove scoperte è inaccettabile morire prima di aver compiuto almeno un secolo! In sintesi, l'effetto congiunto dei nostri meccanismi di difesa ci porta a vedere il corpo più o meno come un motore, che può e soprattutto deve funzionare bene. La medicina svolge il ruolo del meccanico. Il medico ci deve aggiustare, magari sostituendo i componenti logorati, come si fa per il motore, realizzando le nostre aspettative di longevità. La malattia perde il significato di esperienza, e si riduce a evento fortuito, incidente di passaggio. Pur infastiditi per lo spreco di tempo dedicato a guarire, possiamo ricominciare a vivere esattamente come prima, senza avere appreso nulla. In altre parole, morire non significa più aver vissuto, ma solo che qualcuno ha sbagliato. C'è sempre un colpevole. In quest'ottica Sartre arriva ad affermare che la morte è semplicemente assurda: dimostra solo che l'uomo è un organismo biologico a termine. La morte, questa è la sua tesi, è imprevedibile, quindi ad essa non ci possiamo preparare. Irrompe come una sciagura, che interrompe i nostri progetti. E' insensata e contingente: non dà alcun senso alla vita, anzi la priva del suo significato.
Benjamin afferma qualcosa di simile quando individua nella morte dell'esperienza il tratto macroscopico più cospicuo nel caratterizzare la contemporaneità. Scrive: 'La povertà di esperienza non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell'umanità in generale'.
In sintonia con queste affermazioni, molti psicoanalisti sostengono che oggi la morte dell'esperienza si esprime attraverso il consumismo compulsivo, e che questo rappresenta una sorta di esteriorizzazione della vita spirituale, nella quale il mezzo ha preso posto del fine.
Il punto è, come afferma Jaspers, che l'incontro con la morte costituisce per ciascuno l'incontro/scontro con la situazione-limite dell'esistenza, con lo 'scacco e il naufragio dell'esistere'. 'Si scopre sempre troppo tardi che la meraviglia è nell'istante', scrive Francois Mitterand, morente per cancro. Io credo che esista un parallelismo tra l'entità dell'angoscia provata di fronte al pensare la propria morte e la sensazione di radicale insensatezza cui si riferisce Sartre. A partire da queste considerazioni, la psicoanalisi - al di là delle differenze di scuola - ha messo in luce quanto sia fondamentale dare un senso alle nostre esperienze, non solo per evitare l'angoscia, ma anche per rendere sopportabile l'inevitabile sofferenza.
Una profonda riflessione di C.G. Jung suona così: 'Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto'.
La ricerca del senso dell'esistenza, della vita quanto della morte, è dunque qualcosa di più di uno sfizio filosofico per intellettuali annoiati. Non a caso sta alla base della costruzione di quelle cattedrali del pensiero umano che sono le religioni, del pensiero filosofico e poetico, e forse, tout court, della civiltà, nel suo significato 'alto'. La ricerca del senso ha anzi una base archetipale, è un pattern of behavior che affonda nella biologia e nei cromosomi. In una lettura junghiana si potrebbe forse parlare dell'archetipo del Sé.
Ma la ricerca del senso, nella modernità, incontra difficoltà sconosciute ai nostri avi. In un'epoca con mortalità infantile altissima e vita media al di sotto dei quaranta anni, in cui la morte veniva vissuta come ovvietà quotidiana, Agostino di Ippona poté affermare: 'L'uomo muore fin dalla sua nascita', perché ogni istante di vita non è che un avvicinarsi alla fine. Però la sua era un'affermazione serena, perché era consapevole che, seppure i singoli esseri umani muoiono, il cristianesimo si espandeva. Il senso, per lui, coincideva con l'esistenza di un altrove, oltre la morte. Per due millenni la nostra civiltà è riuscita a far suo il delirio di morte di Agostino, perché contemporaneamente si sentiva immortale. Ma oggi? Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, scrive Canetti nell'agosto 1945, hanno distrutto il sogno dell'immortalità della nostra specie. La distruzione, afferma, 'certa della propria origine divina, penetra fin nel midollo delle cose'. A suo parere, peraltro, con la perdita dell'immortalità l'uomo ha acquisito una nuova, paradossale, libertà: il 'vivere senza nessuno scopo'. In grado di annientare la vita, 'l'umanità deve essere cauta se vuole restare in vita'.
In effetti, nella condizione di mancanza di fondamento in cui l'uomo contemporaneo si trova a vivere, che determina una relativa impossibilità a trovare risposte credibili alle questioni ultime, c'è il rischio di un cedimento al nichilismo. A questo pericolo si oppone, pur in modi differenti, ogni psicoanalisi. 'Cercare non è già, in qualche modo, un non essere privi?', scrive Cacciari. Quello che il filosofo intende è che la ricerca aiuta ad aprire orizzonti di senso già per il solo fatto di essere in atto.
Religioni, filosofie e psicologie, e tra queste segnatamente la psicoanalisi, pongono tra i loro scopi fondamentali quello di rendere in qualche modo comprensibile ai nostri stessi occhi la storia della nostra vita. Se questo è evidente quando ci riferiamo al passato, vale anche se riferito al futuro, poiché l'uomo è sempre situato tra passato e futuro. Dunque, l'antidoto al terrore della morte sta nel riuscire a collocarla in un orizzonte di senso. Uno strumento molto efficace, in quest'ottica, e soprattutto di sorprendente vitalità, capace com'è di rinascere continuamente in civiltà ed epoche differenti - e questo mi pare sufficiente per ipotizzarne una matrice archetipica - è il misticismo. La via 'mistica' è una delle vie più battute - almeno a parole - per far scomparire non solo la paura della morte ma, in un certo senso, la morte stessa'.
Qui è possibile leggere tutto l'articolo, pubblicato in parte in 'L'Ombra del flaneur'. (Ed.Moretti & Vitali')
(Wel/ Dire)